Un lupo mannaro

Il fiume scorreva tranquillo quando D. mi fece cenno di fermarmi. Scendemmo dalle biciclette e ci avvicinammo al bordo. Il corso d’acqua in quel punto un tempo doveva diventare ampio, a guardare il ponte in legno che gli era stato costruito sopra. Ormai, il fiume era a malapena un ruscello e l’ansa solo uno spiazzo fangoso.

«Qua un tempo c’era un laghetto,» mi disse D., «e quand’ero piccolo, si diceva che un lupo mannaro venisse a farcisi il bagno di notte. Era il padre di S., quello che ti ha dato la ricotta, ricordi? Era un uomo silenzioso e burbero, uno di quelli che osservano i giovani con un’espressione torva, il tipico uomo che aveva vissuto la guerra, diceva mia madre. Non era cattivo, direi: quando passavo vicino ai suoi pascoli e non c’era nessuno, mi allungava sempre un po’ di frutta.»

D. rise piano, ma non si girò a controllare se fossi divertito anch’io; il suo sguardo era perso in quello che rimaneva del fiume e del lago.

«Raramente era a casa quando calava il tramonto. Venivamo quand’era tardi a bussare a casa di S. e lui ci apriva sempre; portavamo le carte o qualche altro giochetto per distrarlo per qualche ora. Il padre non c’era quasi mai, come dicevo, e quando c’era fuggivamo via di corsa. Ricordo che anche sua madre ci cacciava sempre, perché non stava bene che dei giovanotti fossero ancora fuori casa a quell’ora.»

Lo sguardo di D. si incupì. Qualcosa tremò nei suoi occhi, un’incertezza che pensavo gli fosse totalmente estranea. Quando riprese a raccontare, la sua voce era bassa, quasi inudibile persino nel silenzio della campagna.

«Mi chiedo sempre se S. fosse felice di avere la nostra compagnia oppure avrebbe preferito passare le nottate in solitaria, in attesa del ritorno del padre. Non so neanche se sapesse di quella voce che girava, in realtà. Nessuno aveva mai coraggio di chiedere, né a lui né a nessun altro della famiglia. Sarebbe stato come chiedere a un malato conto della sua malattia, è una cosa che non si fa. Ancora adesso, non glielo chiederei mai.»

Rimase in silenzio e si leccò le labbra secche.

«Sai, mi sono sempre chiesto perché nessuno di noi abbia mai pensato di venire a vedere. Dico sempre che era perché sapevamo che non era reale, che il signor A. non era davvero un lupo mannaro, ma non è così. O meglio, forse eravamo consapevoli del fatto che non fosse vero, ma… Ma non sembrava neanche totalmente falso, capisci? Eppure, quando facevamo le prove di coraggio, non venivamo certo qui e quando i bambini più piccoli tiravano fuori la storia del lupo mannaro nessuno di noi si azzardava a negare o a proporre di controllare. Era… Non lo so, non sarebbe stato rispettoso. Non sarebbe stato giusto.»

Era in difficoltà. Scuoteva la testa, come se nulla di quello che mi stesse dicendo avesse senso o fosse quello che davvero desiderava dirmi.

«Non lo so. Il signor A. era un uomo solitario, sai, ma era per bene. Non si sarebbe meritato di venir trattato come una bestia, non si sarebbe meritato di venir visto in certe condizioni.»

D. si grattò la nuca, poi si portò la mano di fronte alla faccia, nascondendola. Succede spesso che le persone che hanno questo genere di storie da raccontare si vergognino; accade altrettanto spesso che non siano in grado di definire perfettamente le proprie motivazioni. Era quello che stava accadendo a lui, e io lo sapevo. Feci finta di incastrarmi con la manica nel campanello, affinché suonasse, e D. si riscosse dai propri pensieri. Ripartimmo. Poco dopo finii giù da un fosso, in mezzo a dei rovi, e la bicicletta si ruppe: questo manubrio è ciò che ne rimane.


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