Non ero mai stato in Sardegna, quindi decisi di imbarcarmi verso il porto di Cagliari. Fu un viaggio lungo, soprattutto perché non ero mai stato per mare prima di quel momento, eppure non ricordo tanto l’attesa né il malessere, perché conobbi in quel viaggio uno strano giovane. Era un tipo alto, un po’ curvo, ma tutt’altro che timido.
«È la prima volta, eh?» Mi chiese e io non potei fare a meno di rispondere; iniziammo a discorrere così, sapete, una cosa tira l’altra. Lui mi disse che non tornava in Sardegna da molti anni e che non era mai stato così a sud della regione. Gli domandai come mai e lui parve imbarazzato. Mi raccontò che un tempo veniva più volte all’anno, nel paesino che era dei suoi nonni paterni, nell’entroterra, poi iniziò a descrivermi i boschi, i monti, i viaggi che faceva con i genitori per trovare i migliori asparagi selvatici… Non era difficile notare che non aveva dato un nome alla cittadina dei parenti, né l’aveva delineata in alcun modo. Il suo intero racconto era concentrato sull’esterno, su ciò che circondava quel luogo e più gli si allontanava con la memoria e più la conversazione si faceva allegra e vivace.
Non sapevo se volevo sapere quale fosse la ragione di una tale reticenza, ma quando mi misi a dirgli la mia ultima avventura qualcosa in lui parve sciogliersi.
«Ti è mai capitato di vivere un’esperienza che non sai spiegare?» Chiesi. A quel punto, sapevo che mi avrebbe risposto con la verità, o almeno quello che era in grado di ricostruire.
«Il paese dei miei nonni era molto piccolo; era uno di quei posti dove si conoscono tutti, capisci, no? Dove se una cosa accade è questione non di giorni, né di ore, ma di minuti prima che la voce si sparga. Quando accadde “quella cosa”, non sono più riuscito a…»
Sorrise e scosse la testa, probabilmente si stava per fermare e mi trovai a incitarlo: «Cosa?»
«Be’, c’era poco lontano da casa, ai margini del paese, un punto di ritrovo dove si riunivano i cacciatori locali. Non ricordo quanti fossero in realtà, ma da bambino sembravano tanti: non avevo mai incontrato uomini come quelli fuori, nel continente, ma è perché vivevo in città. Non so se fosse notte, ma… Intendo dire che da quel momento in poi tutto nei miei ricordi tutto si fa buio e freddo, quindi il tempo mi pare confuso, ma ricordo che mi svegliai sentendo dei rumori dall’ingresso di casa. I miei nonni stavano mormorando concitati e c’era un uomo, uno dei cacciatori, con loro, pallido come un lenzuolo. Mi sembrava sudasse, eppure tremava, e continuava a dire che “l’aveva visto” e poi cose che non riuscivo a capire. Lo fecero sedere in cucina e quando nonna andò a prendergli una coperta per mettergliela sulle spalle mi notò e mi ordinò di tornare in camera. Quello fu l’inizio. In poco tempo la voce si sparse e tutti iniziarono a parlare di una specie di bue, non ricordo come si chiamasse, un bue bianco le cui corna d’acciaio erano circondate da spiriti e demoni. L’uomo che si era rifugiato dai miei nonni ne aveva avvistato uno, dicevano, mentre cacciava. Le cose non sono state più le stesse dopo, perché cominciarono ad accadere delle stranezze che gli adulti preferivano non raccontarmi, perciò ne sentivo solo dei pezzi, qui e lì, nelle conversazioni. Il cacciatore si era sentito male e si era chiuso in casa; il giorno dopo, avvenne un incidente con due suoi colleghi, che si erano sparati a vicenda mentre erano nella foresta; poi si parlò anche di un fucile scoppiato, credo, o qualcosa del genere e di altri avvistamenti, tutti da parte dei cacciatori. I miei prima mi dissero di non uscire dal paese, poi in poco tempo smisero di lasciarmi libero di scorrazzare anche solo nella piazza principale: non avevo mai passato così tanto tempo dentro casa lì. La gente iniziò a litigare, ad accusarsi a vicenda, perché c’era una colpa che doveva essere espiata, dicevano. Nonna sosteneva che i cacciatori dovessero chiudere la stagione e rinunciare al loro passatempo, almeno finché la situazione non si sarebbe calmata, e alla fine convinse anche nonno, che a sua volta convinse il resto del paese. Poi i miei mi portarono via, due settimane prima di quanto fosse stato deciso, e non tornai più. Ebbi incubi per giorni e giorni. Alla fine, i miei dissero che era stata colpa dei cacciatori stessi, perché alcuni di loro non avevano rispettato i ritmi della natura. Non credo che però fosse quella la spiegazione in paese.»
Rimasi in silenzio e il mio nuovo amico alzò le spalle.
«Non è proprio come quello che hai raccontato tu, perché io non ho visto nulla, ma mi sembra così assurdo, ogni volta che ci penso, che sia stata la mera superstizione a scatenare quel caos. Non ho più provato alcuna gioia al pensiero di tornare lì, però, e i miei non mi si opposero. Suppongo che prima o poi dovrò tornarci e dovrò scoprire come il paese è cambiato. Se è cambiato, ovviamente.»
Gli offrii un silenzio senza giudizio e un mezzo abbraccio. Non era abbastanza per essere una consolazione, ma credo che le parole sarebbero risultate insufficienti.
Quando scendemmo a terra, mi ringraziò della chiacchierata, e ci salutammo.
Durante le mie lunghe camminate per la regione, mi ritrovai nell’entroterra. Pensai di allungare la strada verso il paesino del ragazzo, ma mi resi conto di provare una specie di sacro timore per quella zona. Mi fermai, quindi, ben lontano. Nel posto dove alloggiai più a lungo, c’era un ritrovo di cacciatori e chiacchierai con uno di loro. Mi mostrò il fucile e i proiettili che usava. Quasi incantato, ricordando il racconto che avevo udito in nave, ne presi uno, quello che avete notato, e lo tengo da allora con me.